Negli anni ho sempre letto libri.
Per la maggior parte del tempo ho fatto caso solo ai titoli, alle copertine, alle storie chiaramente.
Ma da quando mi sono immersa nel mondo letterario con tutta me stessa, scoprendolo come fosse in realtà “un ritorno a casa”, ho imparato a fare attenzione anche a tanti altri dettagli. Come per esempio, le case editrici. (Ditemi nulla)!
Ebbene, ce n’è una che aveva già un posto nei recessi della mia mente, la prima di cui ho ricordo, fin da quando ero bambina: Il battello a vapore.
Un nome che si è impresso nella mia memoria e che ha sempre evocato in me l’idea di viaggio. Tra le parole scritte e ingoiate con gli occhi e quelle lette ad alta voce.
Oggi, a trent’anni passati da tre, mi sono ritrovata con mani trepidanti a sfogliare nuovamente un libro di questa casa editrice.
A un passo da un mondo perfetto di Daniela Palumbo.
Ho viaggiato tra le pagine con il cuore della bambina che sono stata e con la consapevolezza dell’adulta che sono diventata.
È una strana formula magica, il tempo, quando si leggono i libri.
Ora, non è facile esprimere un parere su un libro che parla di Shoah. Ancor più se il libro in questione in un certo senso ti spiazza, in termini di… delicatezza.
Ecco, le parole di Daniela Palumbo, in A un passo da un mondo perfetto non descrivono l’orrore, non direttamente almeno.
È come se questo aspetto fosse ai margini di ogni pagina, come un urlo silenzioso che ti strazia il cuore perché è un dato di fatto. È successo, e tutti lo sappiamo. E provocherà sempre un dolore sordo leggerne, sentirne parlare, ricordare.
Eppure al centro c’è la storia di una bambina, tedesca. Iris, che ha preso il nome dai fiori preferiti di sua madre.
Iris, tanto amata e protetta dai suoi genitori.
Iris, che dal mondo perfetto e felice in cui vive, si trova gradualmente faccia a faccia con la realtà.
Lei però non vede quella distorta, travestita da sogno patriottico che “i grandi” seminano come fosse necessaria, giusta normalità.
Lei guarda negli occhi un prigioniero ebreo, Ivano, e ci vede dentro gli abissi della rassegnazione, della fame, delle domande senza risposte. Sente su di sé il dolore di un copro massacrato anche se già a terra, e l’odio, urlato nella sua lingua.
”Da un po’ c’erano questi pensieri che non tornavano indietro come li aveva pensati Iris. Lei li confezionava come sapeva che fosse giusto infilarli in testa. Somigliavano ai pensieri di chi amava. Erano perfetti. Ma poi quelli si ribellavano e le si riaffacciavano in testa cambiati, capricciosi, pieni di dubbi, di domande. Di crepe che non restavano uguali, ma andavano avanti. Piccoli squarci che diventavano sempre più profondi”.
Daniela Palumbo parla di crepe. Si formano dentro la testa di bambina di Iris, dalla curiosità e dalle domande legittime che la bambina si pone e ben presto capisce che se le rivolge all’esterno non soltanto non verrà ascoltata ma tacciata come traditrice, disfattista, stupida e inutile come sua nonna Lena.
“Quando vedi un uomo a terra, chiunque sia, non ti vergognare a sentire su di te il suo dolore, come ti capitava con il prigioniero ebreo all’inizio. Non te ne vergognare mai. Neppure se è ebreo, Iris. È questo sentire la sofferenza dell’altro che ci rende esseri umani”.
Scopre l’amicizia Iris, con Gerolf, più grande di lei ma suo compagno di classe. E mentre la maestra continua a seminare e a fomentare l’odio, le crepe di Iris si specchiano in quelle di Gerolf e così, senza tante parole, anche loro si sentono meno soli.
Una crepa è qualcosa che si rompe, fa male. Eppure, quanta luce che esce dagli squarci di questa realtà.. E Iris, con tutto il coraggio dei suoi undici anni sceglie di non vivere nell’ombra. Non è tanto quello che può fare ma nel suo piccolo ogni gesto d’amore contrasta l’odio, ogni volta che prova sdegno e vergogna contrasta la folla di esseri disumani che avanza senza senso.
E nonostante questo, il senso di colpa di colpa graverà sul suo cuore, per sempre.
Uno degli aspetti che mi ha fortemente colpita è proprio la spaccatura nella quale si trova Iris. Scoprire che i suoi genitori, quelli che con lei sono buoni, che la amano, che il 25 Dicembre le fanno trovare i pacchetti sotto l’albero di Natale, siano i carnefici in questa storia. È uno schiaffo di realtà che le arriva dritto in faccia. Ma come può, lei, smettere di amarli, quei mostri dei suoi amati e amabili genitori?
È una bella domanda.
Ma vorrei ringraziare Daniela Palumbo, per la sua Iris, per la delicatezza e la memoria viva, per le domande e gli spunti di riflessione… sempre molto attuali. Per le sue crepe e per la luce che da queste combatte per esplodere.
“Non c’è fretta, la strada verso il mare è a un passo da loro”.
Erika Carta
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