Le Tre Civette sul Comò, cioè Raffaella Fenoglio, in agosto hanno incontrato Filippo Venturi con il suo “Gli spaghetti alla bolognese non esistono”. al Book Festival di Bordighera. Nel 2018 era presente al BBF con il suo libro “I tortellini muoiono in brodo” , andato benissimo e difatti eccoci qui alla sua seconda fatica letteraria.
La storia si svolge a Bologna dove Filippo Venturi gestisce una trattoria sotto i portici, oggetto del libro è il furto dell’immagine della patrona di Bologna, la Madonna di San Luca, ed è popolato da personaggi simpatici, la narrazione è fresca, ben scandita, assolutamente piacevole. Ritorna il mood del primo giallo, insomma, frizzante come un buon bicchiere di Lambrusco.
- Raffaella .Come nascono i tuoi libri, forse mentre prendi le ordinazioni?
Filippo Venturi. I miei libri nascono dall’ispirazione, che è colei che muove tutto. Ciò che distingue uno scrittore è avere qualcosa da raccontare. In questo, nell’elaborazione dell’idea, ma soprattutto nell’individuazione dei personaggi, le ordinazioni mi aiutano eccome! È la gente che fa le storie, che le vive, che le racconta, e io ho la fortuna di averla lì, la gente, ogni sera, un universo di idee, discorsi, aneddoti, umori, gesti, battute, tic, tutto a mia completa disposizione. La parte finale dell’agenda annuale delle prenotazioni, quella in cui sono presenti alcune pagine bianche, sono solitamente pieni di appunti, che scrivo al volo durante il servizio. Parafrasando Vasco, le canzoni sono come i sogni e a noi non resta che scriverle in fretta perché poi svaniscono. Già verso metà febbraio avrei bisogno di altro spazio, ma mica posso occupare i fogli del 31 dicembre! Ma quest’anno ho tutte le pagine intonse di marzo e aprile, e così, da inguaribile ottimista, ho trovato un lato positivo anche dal lock down…
2.Qual è la ricetta preferita di Filippo Venturi, una classica e casalinga o una che possiamo trovare nella carta del ristorante?
La mia passione per la cucina inizia una mattina di tanti anni fa, osservando mia nonna preparare il ragù.
Da quel giorno tutto è cambiato. Conservo ancora il foglio ingiallito, che ne custodisce i segreti, ricordi appuntati con la calligrafia rotondeggiante di bambino. Per questo, forse sarò banale, ma le tagliatelle al ragù rappresentano per me il non plus ultra della cucina bolognese, il bilancino di precisione in grado di misurare la capacità di fare tradizione.
Anche i tortellini, eh. Ma le tagliatelle al ragù di più. Da lì non si scappa.
Devono essere spesse e larghe al punto giusto, come dice lo stesso Emilio Zucchini, più o meno 7 millimetri, ovvero la dodicimiladuecentosettantesima parte della Torre degli Asinelli. Il sugo deve essere di quel bel rosso intenso, deve lasciare il famoso “sole nel piatto”, per dare spazio al gran finale della scarpetta. Per ottenere questo, sono necessari due ingredienti fondamentali: il burro e il tempo.
Il ragù se ne frega dei ritmi frenetici degli anni Duemila. Lui vuole attenzione, cura, costanza. Non è che lo metti su e te ne vai. Il ragù è permaloso. Se se ne accorge si brucia. Devi stare lì con lui e coccolarlo. Regolare la fiamma a seconda delle fasi di cottura. Odori, burro e pancetta tritata; e poi il magro, il vino bianco, il brodo, la passata, il triplo concentrato: a ognuno il suo momento, il suo colore, il suo profumo, il suo sapore. Perché il ragù è un’emozione, non dimenticatelo mai.
4. Facci una confidenza: riusciresti a vivere in un’altra città?
Purtroppo non potrei vivere in nessun’altra città che non sia Bologna. Dico “purtroppo” perché so che è una cosa un po’ limitativa. Direi piuttosto provinciale. Mi sarebbe piaciuto viaggiare di più, fare più esperienze, soprattutto da studente, quando tutto era più semplice. Non l’ho mai fatto: troppi legami, troppe radici, forse troppe comodità, di sicuro troppo poco coraggio. Ma sono sereno e ormai il gioco è fatto. Ho le mie attività, la mia vita, i miei affetti, tutto è stabile. Non mi muoverò più e se proprio lo dovessi fare, una città vale l’altra, purché con la mia famiglia. Da solo non andrei da nessuna parte.
5. Il 22 settembre è uscito un altro volume, dal titolo “Clamoroso” che è la biografia di Gianmmarco Pozzecco. Ci racconti come è nato e come si è sviluppato questo progetto?
Il progetto della biografia di Gianmarco parte da lontano. Era il 2016 quando un nostro amico comune, Claudio Valdiserri detto il Clod, che vive a Formentera, mi dice che il Poz aveva questa idea da tempo, ma non riusciva a farla decollare.
“Sei tu la persona giusta, devo convincerlo”.
Sottolineo che a quei tempi non ero ancora autore Mondadori e in un certo senso la cosa poteva avere il suo peso. Voglio dire: non ero giornalista sportivo, non scrivevo per case editrici a distribuzione nazionale, insomma: chi cavolo ero ai suoi occhi? Mister nessuno. Però, in effetti, il Clod non aveva neanche tutti i torti. Sono un amante del basket sin da bambino, lui è sempre stato un mio idolo, sono fortitudino e, particolare da non sottovalutare, non so se bene o male, ma scrivo storie. Morale della favola, mi porta a cena da lui, nella sua casa a Formentera, io ero là in vacanza con la famiglia. Ci conosciamo. Il giorno dopo iniziamo a frequentarci, io col mio registratorino, lui con la sua prorompente genuinità.
Torno a Bologna dopo qualche giorno e gli mando il primo capitolo. Eravamo d’accordo così. Sapevo che mi avrebbe misurato lì. Mi giocavo tutto. Era la mia grande chance. E allora decido di azzardare. Faccio il Pozzecco e mi butto dentro senza paura. Lui legge e impazzisce e il resto è storia. Con i nostri alti e bassi, siamo andati avanti quattro anni, con oltre 100 ore di registrazione, e non so quanti chilometri macinati tra Zagabria, Sassari e Formentera. L’unico periodo in cui non abbiamo “lavorato” insieme è stato durante la sua permanenza a Bologna, come capo allenatore della Fortitudo, perché tra persone “non normali” funziona così. Il libro esce il 22 settembre ed è clamoroso come il suo titolo.