Non esistono parole per far leva sul dente che batte, sulla lingua che tace. Non esistono più attracchi, ma solo cicatrici da palmo a palmo, perché quando si tratta di amore, non si può fare altro.
Il vento inchioda lei al muro, mentre lui respinge la sua luce dietro la nuca, nell’estremo altroquando dell’universo.
Quella luce. Prima delle finestre serrate, prima della notte, prima delle navigazioni del sangue, prima dei fiumi nelle loro mani, oltre la frontiera delle voci scosse, nella bufera del sole di luglio.
Ogni passo è speso per trovare il paradiso, ogni fatica per lasciarci spaccare dalla tenerezza.
Nel netto computo dei secoli, lei cammina scalza, proprio dietro di lui, verso il fronte di prece fatta protezione, fatto tesoro, uscita dalle vene, dalle ghirlande di pensiero messe a seccare all’ombra delle querce.
Lei è spacciata. È questo che lui le ha detto.
Lei è destinata… all’amore. È questo quello che lui le ha fatto.
Lei è senza respiro. È questo quello che le ha tolto.
Le ha portato via l’aria, assieme a molto altro, dopo un lungo addio.
La sua sorte era ferire, era andarsene. Il fato di lei, invece, era di migrare in un’altra terra, in un altro impasto di anima.
Scoprirsi spossati. Scoprirsi scheletrici, senza più battiti. Scoprirsi senza veli nell’oro del grano, infranti a prua da un patto d’esistenza.
Lui le aveva ricomposto l’oroscopo della nascita affondando le dita nelle spirali dei boccoli ribelli ai soffi e ai mutamenti.
L’amore, allora, era nato senza pretese, sul calare del giorno, in bocca agli usci vietati alle voci gloriose che turbano angeli e demoni, per il dono degli incastri e delle fioriture della pelle.
Miasmi d’estate consumavano l’asfalto, mentre bashert continuava a giocare a dadi senza sosta.
In atto c’era una separazione non prevista. In agguato c’era il pianto.
Camicia tesa dal vento e sguardo fiero da commiato. Lui sì che era una colonna.
Braccialetti colorati e colpi d’ascia nelle dita che trattenevano lacrime e i riverberi silenti del meridiano. Lei era solo un fremito.
Toccò all’anima viva il gladio, l’urto delle ore, la clausura dell’amore, le fibre infrante per il tripudio della noncuranza.
E quel che è certo è che il vento continuerà a scavare ancora e ancora, dentro la dolce gleba del cuore, nei lampi di settentrione, nella pece delle ciglia e nei satelliti d’argento di ogni languido mondo.
Racconto tratto da L’appendifiabe, Silvia Casini & La Ragazza con gli Occhi Verdi, Nadia Camandona Editore, Copyright ©