Ci sono storie che non si vorrebbero mai leggere, perché sono storie vere, che somigliano troppo alle nostre e rievocano antichi dolori, antichi perché, destinati a rimanere senza risposte nello scorrere dei giorni e degli anni. Non importa con quanta forza ci si domanda perché è successo, certe cose accadono e basta. Col tempo si capisce, anche se non per tutti, che trovare un colpevole, o giudicare se stessi colpevoli, non serve, non aiuta nel presente e nel guardare al futuro.
Ma queste storie, come quella di Sirio, sono anche quelle che devono essere raccontate, devono essere urlate a gran voce, perché certe situazioni non si ripetano più è perché gli invisibili si facciano visibili e prendano il proprio posto nel mondo.
Ognuno ride a modo suo racconta di Sirio, un bambino che brilla di luce propria, e della sua famiglia.
Le parole di Valentina Perniciaro, la sua mamma, sono intense, poetiche, ma arrivano affilate come un rasoio, feriscono nello stesso modo in cui curano. Certe frasi certe descrizioni sono talmente vivide e intense da fissarsi nella mente come fossero quadri, ma non solo. Attraverso il racconto di ciò che era Sirio, di ciò che è si sente tutta la forza, il dolore, la paura, ma anche la determinazione, la luce e la perseveranza che guida tutta la famiglia e soprattutto la voglia che ha questo bambino, che ha avuto un inizio non proprio felice, né facile, diciamo tutto in salita, di autodeterminarsi e di dimostrare che tutte le diagnosi catastrofiche e nefaste che gradavano sui suoi primi mesi di vita, ora sono solo carte sbiadite, francobolli inutili, monete fuori corso.
“Le parole che i medici iniziano a pronunciare sembrano più buie di quelle di morte dei giorni precedenti: ci introducono sussurro dopo sussurro all’idea di uno stato vegetativo persistente. Nei giorni in cui saresti dovuto nascere, la terra trema, sussulta, si squarcia e ripete ossessivamente “stato vegetativo persistente”.”
Queste le parole dette da medici a proposito del futuro di Sirio dopo che il suo cuore era andato in arresto cardiaco, poi rianimato e messo per tre giorni in ipotermia per cercare di salvare il salvabile. I giorni diventano lunghissimi, fili pesanti di attesa, di speranza, di domande, di dubbi, e di dolore, dietro le porte del “reparto rosso” dell’ospedale.
Non c’è bisogno di essere genitori o di avere una disabilità di qualche tipo, per capire che queste parole così dure, questi pensieri sussurrati, ma così lapidari non andrebbero mai pronunciati, o almeno non così alla leggera, non senza aver valutato tutte le possibilità, perché le parole, nella loro essenza di sostanza, possono distruggere una persona, una famiglia, e minarne il futuro.
Con Sirio condivido la patologia, la condizione fisica data dalla paralisi cerebrale Infantile, e anche ai miei genitori, ormai quasi 39 anni fa, è stato detto che non sapevano se io avrei mai parlato, camminato, o fatto alcunché.
Supposizioni e pseudodiagnosi, fatte da medici, talvolta anche competenti, ma mancanti totalmente di empatia e lungimiranza, camici bianchi che in virtù del loro ruolo, non sempre all’altezza, possono atterrire un genitore, che si sentirà sperso, pieno di sensi di colpa davanti al nuovo orizzonte di un danno neurologico o di una disabilità grave del proprio figlio.
Per fortuna sia i miei genitori, che quelli di Sirio, non si sono arresi all’etichetta “stato vegetativo”.
La famiglia e il supporto è importante, così come è importante lasciare alla persona la fiducia e la possibilità di esprimersi al meglio delle proprie possibilità, per non lasciare che parole, etichette, o gli stessi limiti della disabilità diventino macigni ancor più pesanti.
La storia di Sirio descritta attraverso tutto l’amore e la forza della sua mamma, e della sua famiglia, fratello maggiore compreso insegna che tanto si può fare, a partire da un inizio catastrofico, ma che bisogna avere anche la fortuna di incontrare le persone giuste, gli occhi e la mente giusti.
“Sirio ride, devo solo imparare a vederlo. Ride, sono io che devo ricordarmi come si fa, io a dover capire che ognuno ride a modo suo. E che il sorriso di mio figlio, con quella sua bocca ogni giorno più aperta e immobile, è bellissimo. Le parole di Paola mi insegnano a essere la mamma di Sirio, spesso a schiaffoni: è un regalo prezioso. Il mio orgoglio può aspettare.”
La paralisi cerebrale Infantile si manifesta in molti modi e tante diverse sfaccettature, a volte sa essere davvero fetente, ma è anche vero che molto fa l’ambiente in cui una persona cresce e le possibilità che ha o che gli vengono date.
Non è scontato che un bambino con una disabilità possa recuperare, fare riabilitazione, imparare a camminare, tanto dipende sì dalla medicina e dalle cure tempestive, ma anche e spesso dall’intuizione di certi medici e professionisti e anche dai genitori che non si rassegnano.
È difficile, faticoso è sfiancante, sembra di lottare ogni giorno contro i mulini a vento e ben pochi capiscono cosa ci sia dietro la vita e le conquiste di un bambino con una disabilità.
“Io voglio essere felice, voglio che i miei cuccioli siano comunque felici, siano capaci di fare sogni grandissimi. Io oggi su questa vetta sono felice, respiro la libertà che comunque ho dentro di me, respiro a pieni polmoni la consapevolezza che in questo zaino ho infilato anche la tetraparesi, la tracheostomia, la paralisi cerebrale: è tutto qui insieme a me, dentro me, intorno a me, ed è un panorama meraviglioso, che forse tutti dovrebbero incontrare.”
Sarebbe un diritto sacrosanto, ancora non riconosciuto, che un genitore debba fare il genitore e non solo il
Caregiver, che possa vivere la propria vita e la propria famiglia senza farsi schiacciare dal peso della disabilità di un figlio.
Perché diciamolo: la disabilità spesso spegne sogni, desideri, ti affatica, ti consuma e non è giusto, né per chi la vive, né per chi assiste chi ne porta il peso.
Sirio è l’esempio di cosa si può fare, che sembra impossibile sulla carta, ma che alla fine non lo è poi tanto, siamo noi che non guardiamo le cose dalla giusta prospettiva.
Per una volta faccio mio il motto #inculoallostatovegetativo, perché anche io dovevo rientrare in quella casistica di “pazienti perso” e invece sono qua. La disabilità c’è ancora, ci sarà sempre. Ma ho una vita, ho potuto studiare, autodeterminarmi, avere una famiglia mia e una figlia, e molto lo devo solo alla fortuna e a me stessa, oltre che a chi ha creduto in me, in primis i miei genitori e i miei nonni.
Però la società tutta dovrebbe rendersi conto che, come Sirio, la sua famiglia, io e molti altri che hanno una disabilità, noi esistiamo e abbiamo diritto ad avere accesso al mondo e alle sue infinite possibilità, ma ci deve essere più conoscenza, più cultura, più empatia. Meno giudizio, meno etichette e più cura della persona nella sua interezza.
“La voce che scelgo di dare, giorno dopo giorno, alle parole dei Tetrabondi è proprio quella di Sirio: lascio che sia lui a raccontare cosa vuol dire riuscire a comunicare anche se per tanto tempo lo hanno raccontato senza i prerequisiti per farlo, a disegnarsi senza tralasciare tubi e tubicini. Lascio che sia Sirio a parlare di quel che costruisce nei corridoi della sua scuola, di quel che vuol dire avere accanto le figure e l’entusiasmo giusto”.