La bambina di vetro: recensione

Ho letto La bambina di vetro per una challenge di lettura, una sfida nata per gioco sui social, che si chiama “#12bookschallenge”, in pratica si leggono 12 libri, in 12 mesi, consigliati da 12 amici.

Dato che sono un’avida lettrice ho pensato: perché non provarci? Perché non uscire dalla mia zona sicura e leggere qualcosa consigliato da altri, che magari io non leggerei o non scoprirei?

Così la scelta del libro di marzo è caduta su questo di Jodi Picoult, La bambina di vetro che già dal titolo fa intuire che non sarà una lettura facile.

Questa è la trama:

Tutti i genitori in attesa vi diranno che non vogliono un bambino perfetto, ma che vogliono un bambino sano. Anche Charlotte e Sean O’Keefe avrebbero chiesto un bambino sano, se avessero potuto scegliere. Invece, la loro vita è fatta di preoccupazioni, di notti insonni, di conti che si accumulano, degli sguardi pietosi dei genitori “più fortunati” e, peggio ancora, di “e se…”. E se la loro bambina fosse nata sana? Ma vale la pena di affrontare tutto questo, perché Willow è perfetta, per quanto strano possa sembrare. È intelligente e carina, gentile e coraggiosa e, per avere solo cinque anni, è inaspettatamente e profondamente saggia. Willow è Willow, in salute e in malattia. Ma quel “e se…” scava a fondo nel cuore e nella mente di Charlotte, che proprio in nome di Willow e dell’amore che ha per lei, decide di affrontare un processo contro la ginecologa che non ha diagnosticato prima la malattia della bambina: osteogenesi imperfetta, un’espressione asettica che descrive una fragilità ossea incompatibile con uno sviluppo e una vita “normali”. Questo significa per lei cercare risposta a una serie di domande che forse una madre non dovrebbe mai essere costretta a rivolgersi. E se Sean e Charlotte avessero saputo prima della malattia di Willow? E se la loro amata Willow non fosse mai nata? “La bambina di vetro” ci porta nel cuore di una famiglia unita da un incredibile fardello, da una volontà disperata di farcela e, infine, da una fortissima capacità di amare.

Io ho a che fare con la disabilità da sempre, un po’ perché ci sono nata, un po’ perché anche indirettamente ho sempre sentito i discorsi delle altre persone intorno alla disabilità, anche alla mia disabilità.

Questo libro è stata per me una lettura dolorosissima, devastante e pesante oltre ogni dire.

Non lo consiglierei mai, nemmeno al mio peggior nemico. Non tanto per lo stile di scrittura che ho trovato abbastanza curato, anche se in certi punti noioso e piatto, non tanto perché affronta la tematica della disabilità ma per come lo fa, e per il fatto che al dramma della malattia di Willow vengano aggiunte via già molte altre situazioni spiacevoli, fino ad un epilogo decisamente tragico e fuori contesto.

Genitori totalmente immaturi e centrati su stessi, una bambina con l’osteogenesi imperfetta che sembra non provare nessuna emozione, il cui dolore non viene mai compreso fino in fondo. Sminuito svilito, perché gravoso. Una sorella maggiore adolescente che per attirare (giustamente) la dovuta attenzione su di sé diventa autolesionista e bulimica. Una madre che si preoccupa solo della riabilitazione e costi economici della gestione figlia dimenticando tutto l’aspetto emotivo e pratico di vivere di una bambina con una disabilità piuttosto grave, dimenticando anche di pensare realmente al futuro di sua figlia come persona e non solo come malata che avrà bisogno di cure. Una donna che non esita a sacrificare i rapporti più cari in virtù di un’idea assurda e malata. Un padre che non è in grado di occuparsi delle figlie e sorvola i problemi anziché affrontarli. Non un uomo innamorato, ma uno che fugge. Un poliziotto che si lamenta che la moglie non sia più come la ricordava.

Ho davvero sofferto mentre leggevo, mi è preso un gran nervoso, perché mi pareva di rivedere l’atteggiamento dei miei genitori nei miei confronti a volte, ma soprattutto sono stata male a leggere del dolore di Willow per le fratture, gli interventi, le riabilitazioni, alle sue privazioni, e intanto a vedere una famiglia disfunzionale che si sgretola si autodistrugge, perché incapace di accettare la diversità, la vera fragilità, che non è la disabilità, ma la comprensione reciproca.

Ho trovato odioso persino che capitoli densi e tristi fossero intervallati da ricette di cucina (la madre di Willow faceva la pasticciera prima di fare la caregiver a tempo pieno) che nulla avevano a che vedere con il testo.

Sconsiglio questo romanzo non perché parla di disabilità o sofferenza, ma perché a mio parere lo fa in maniera sbagliata, troppo drammatica, troppo realistica, senza respiro.

So per esperienza che certe situazioni famigliari di persone che vivono la disabilità sono così: difficili, drastiche, senza speranza, ma essere disabili non è tutto nella vita e non è tutto bianco o nero, quello che intendo dire è almeno in un romanzo il lettore si aspetta uno spiraglio, una via d’uscita, quanto meno una carezza gentile, che qui non solo manca, ma viene caricata ancora di più dal finale amarissimo che piomba addosso come un macigno.

So che questo libro mi è stato consigliato col cuore, e so che molti amano i romanzi della scrittrice, ma davvero non fa per me, e mi ci vorrà un bel po’ per riprendermi da una lettura così.

 
Samanta Crespi
 
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