La città proibita: recensione

Dopo aver mischiato il genere crime con il cinecomic grazie a Lo chiamavano Jeeg Robot e aver congiunto il film di guerra con fantasie spielberghiane, comunque sempre legate al mondo dei fumetti, con Freaks Out, il regista italiano Gabriele Mainetti, giunto alla sua terza opera, decide di far incontrare il sentimentalismo capitolino con il genere arti marziali, quello tanto caro alla settima arte cinese, o meglio hongkonghese.


Grazie a La città proibita (da non confondere con il film storico di Zhang Yimou del 2006) si cerca quindi tale approccio, narrando una storia che porta al proprio cospetto elementi come la vendetta, lo sguardo sociale e la convivenza tra razze, argomenti su cui il buon Mainetti intende giostrare la sua opera numero tre.

La storia è quella della giovane Mei (Yaxi Liu), nata e cresciuta in Cina con un padre maestro di arti marziali e tenuta nascosta per le rigide leggi del suo paese, che non consente la nascita di secondogeniti.

Trovatasi a Roma clandestinamente, la ragazza è alla ricerca della scomparsa sorella maggiore, la quale lavorava per conto del potente Wang (Shanshan Chunyu).

In fuga dagli uomini di quest’ultimo, va poi incontro a Marcello (Enrico Borello), gestore di un ristorante assieme alla madre Lorella (Sabrina Ferilli) nonché conoscente del boss di zona Annibale (Marco Giallini); il padre di Marcello, Alfredo (Luca Zingaretti), sembra essere infatti fuggito proprio con la sorella di Mei.

L’incontro scontro tra queste culture li porterà verso una strada che farà luce su determinate verità, tra combattimenti all’ultimo sangue e la nascita di un sentimento impensabile come l’amore.

Cavalcando come sempre il cinema italiano, utilizzando uno sguardo che unisce spettacolo internazionale a stilemi del nostro panorama, Mainetti grazie a La città proibita firma una nuova piccola lezione di cinema nei confronti del nostro pensiero su come realizzare una pellicola; difficilmente avremmo immaginato ai giorni nostri la visione di un film italiano che potesse mostrare combattimenti a suon di arti marziali, coreografati alla perfezione e che non stonano neanche se confrontati con opere internazionali del caso.

Una specie di sogno ad occhi aperti per chi sperava in Italia nella rinascita di un tipo di spettacolo, capace di mischiare varie maestranze del caso come stuntmen e tecnici all’altezza della situazione, una realtà che lo stesso Mainetti ci aveva regalato già dalla sua opera prima e che qua si consolida alla grande; inoltre notevole la sua capacità di inserire in tutto ciò dettagli che fanno parte del nostro bagaglio culturale e cinematografico, un metodo che riesce ad avvantaggiarsi della bravura di attori del nostro settore come Giallini, il quale con Annibale ci regala una maschera tragica insita nel mondo di Roma.

Notevole la prova dei giovani Liu (nella realtà vera e propria stunt woman) e Borello, sul cui rapporto “sentimentale” si basa anche il messaggio di convivenza razziale che dovrebbe passare da La città proibita, ridimensionando pienamente quello che sembrerebbe solo essere un film d’intrattenimento e elevandolo a lungometraggio degno di nota sia dentro ai nostri confini che al di fuori.

E forse, giustamente, nel futuro del regista Mainetti una sua escursione nel cinema internazionale non è totalmente da escludere, come è già successo ad altri suoi colleghi come Stefano Sollima.

Mirko Lomuscio

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