Non sempre una storia, per piacere o essere bella, deve essere per forza vera, è questo il significato principale della fiction, come dice la stessa parola. Basta aggiungervi un tocco di fantasia o anche solo renderla più “romanzata”, evitando semplicemente di tralasciare il suo significato o la sua essenza.
Tale è uno dei principali argomenti trattati in Big Fish, film del 2003 diretto da Tim Burton, ispirato al romanzo omonimo di Daniel Wallace, che grazie a Universal Pictures, che ne distribuisce la riedizione in home-video, potrete notare.
Un uomo a cui piace raccontare storie incredibili su di sé, poco veritiere ma molto appassionanti, si ammala gravemente. Suo figlio, allontanatosi da lui per diversi anni a causa proprio di questo suo “difetto”, torna a casa per passare gli ultimi momenti con lui, sperando che almeno in punto di morte gli possa raccontare qualcosa di vero sulla sua vita. Ma lui, persino sul letto di morte, non si vuole fermare e continua imperterrito a confidare irrealistici aneddoti alla sua futura nuora.
Seguendo le vicende, ci si rende conto di non sapere nulla di effettivamente realistico del passato di quest’uomo, se non le avventure che lui ha passato in compagnia di un gigante, l’aver visto la propria morte nell’occhio di vetro di una strega, o la sua peripezia con un grande pesce che ingoiò la sua fede nuziale. Tuttavia, andando avanti con la storia, sorge sempre più spontanea la domanda: c’è davvero bisogno di saperlo? Sul serio abbiamo la necessità di conoscere la verità su una storia già fantastica per conto suo?
Che Edward Bloom, il narratore\protagonista, abbia vissuto davvero gli aneddoti da lui raccontati non è cosa certa. Ciò che è innegabile è che egli sia riuscito a compiere grandi traguardi e a realizzare i suoi sogni, seppur non tutti. Non volendo essere recluso in uno spazio ristretto, ha voluto allargare i propri orizzonti e provare esperienze sempre nuove. Ed è proprio questo uno dei significati del film: non fermarsi alle apparenze, scovare in una storia apparentemente inventata i fatti che la rendono veritiera o anche speciale. Una persona è in grado di vivere dentro tali storie, e guadagnarsi la vita eterna se esse saranno tramandate in futuro. E quale modo migliore di farlo se non aggiungerci un pizzico di fantasia? Non importa quale sia la vita vera di un uomo: un uomo è conosciuto per le storie per cui racconta.
Uno dei simboli di tale messaggio è la tranquilla cittadina di Spectre, nella quale s’imbatte Edward subito dopo essere partito dalla sua città natale. Un posto spensierato, nel quale tutti camminano a piedi nudi per quanto il terreno sia pulito, ognuno vive la sua vita senza preoccupazioni, e nel quale egli è invitato a vivere per sempre. Tuttavia, con rammarico degli abitanti, Edward rifiuta, poiché preferisce una vita stravagante e avventurosa, evitando di essere così un pesce tropo grande in un acquario troppo piccolo.
Noi siamo pronti a fare la sua scelta? Preferiamo vivere una vita tranquilla, un lavoro stabile, un ambiente spensierato, o siamo pronti a correre dei rischi e sperare di realizzare le nostre ambizioni?
Ewan McGregor (Trainspotting, Star Wars) è a dir poco perfetto per interpretare il giovane Edward. La semplicità e al contempo l’immane passione insite nel suo personaggio riescono a renderlo simpatizzante nei riguardi del pubblico. Ogni suo sorriso è credibile, ogni suo movimento controllato, impossibile non amare la sua performance. Ovviamente al pari di Albert Finney, che lo interpreta da anziano, seppur occupi meno tempo sullo schermo, ottiene una rilevanza eguagliante. Sembra davvero che siano la stessa persona, per quanto bene recitino.
Degna di nota è anche Helena Bonham Carter, che interpreta ben due personaggi differenti (o forse no?), ma riesce a dare ad ognuno una propria personalità, uno dei quali senza neanche parlare.
L’unico difetto che si può riscontrare è che la regia risulta alquanto anonima. Non brutta o tralasciata, semplicemente si vede che non si cerca di rischiare ancora di più. Inizialmente questo film sarebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg, ma successivamente si optò per Burton. Non una cattiva scelta, ma se fosse stato il primo a prendere le redini, non si sarebbe vista la differenza. Non è certo un film a cui servono tinte dark proprie delle pellicole del buon vecchio Tim, però sarebbe stato interessante vedere un tocco autoriale, almeno per dare una tinta più personale al film, vista anche la storia alquanto originale. Magari se fosse stato dato il comando a Wes Anderson sarebbe uscito fuori qualcosa di più.
Autoriale o meno, questo film riesce a farsi piacere, anzi, a farsi amare. Paradossalmente, una storia dentro una storia che insegna ad amare le storie. Uno dei film meno “burtoniani” del maestro, ma non per questo meno interessante.
Come dice Terry Pratchett, agli umani serve la fantasia per essere umani.
Andrea De Venuto
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