Dragonero: recensione dei volumi 60 e 61

Con la conquista della capitale imperiale, Valhendàrt, da parte delle Regine Nere, per l’intero Erondàr sembrano esserci ben poche speranze. Orde di creature oscure colpiscono i punti nevralgici dell’Impero, addirittura sancendo nuove alleanze con regni umani desiderosi di conquista e rivalsa.

Per fronteggiare queste forze malvagie, si decide di ricorrere alle misure più drastiche ma efficaci che si possano immaginare: i nani e gli orchi, sotto l’influsso dei tecnocrati, dopo interminabili guerre si alleano contro il nemico comune, scambiandosi armi e territori. Elfi e barbari di Raghanar stringono quasi amicizia, sotto l’ala imperiale. Perfino i ghoul stanno dando manforte ai ranger, in modo da colpire le Regine Nere nei loro punti deboli. Tutti questi sono guidati non tanto dal giovane imperatore, ma dal generale Jarras, solido perno di queste alleanze e guida contro l’oscurità incombente.

Mentre infuria la guerra e mentre i suoi amici più cari sono intenti a guidare le loro rispettive razze, Ian “Dragonero” Aranill è partito per chiedere l’aiuto degli antichi Draghi, scomparsi dal continente ormai da secoli, più per scelta che per obbligo. Per farlo, Ian verrà accompagnato da alcune nuove e vecchie conoscenze, con alcune delle quali dovrà mettere da parte rancori passati e, in alcuni casi, spingersi oltre i limiti di ciò che per lui può essere impossibile.

Con questa saga, Dragonero potrebbe finalmente avvicinarsi al suo finale, o almeno si spera. Questa serie ha avuto alti e bassi, più alti naturalmente, ma è sempre stata piena di filler inutili o di storie allungate fin troppo, com’è ormai di consueto nelle serie della Bonelli. Ormai si desidera solo che finisca, e che termini in gran stile. E pare che quest’ultima richiesta stia venendo esaudita.

Le scelte che, in certi casi, è costretto a compiere Ian, soprattutto il significativo cambiamento apportato alla fine del volume 61, cambiano quasi totalmente il profilo di un personaggio che noi avevamo già inquadrato e credevamo rimanesse così (ripetendo, com’è d’uopo nelle serie della Bonelli).

Si riesce a percepire la tensione che guida i personaggi e il pericolo che incombe sul continente. Si ha paura per i personaggi che abbiamo imparato ad amare per tutto questo tempo, ma al contempo speranza per i loro futuro successo. I magnifici disegni riescono a mostrare ogni ruga, ogni mezzo sorriso, ogni sopracciglio alzato, insomma ogni dubbio insito nei personaggi.

Tuttavia, i difetti sono insiti proprio nei pregi.
Perché creare dei lineamenti perfetti se poi i personaggi non fanno altro che parlare proprio di ciò che provano? Il fine dell’arte è “Show, don’t tell”, non interessa sapere (almeno nei dialoghi) cosa pensano di questo, cosa successe in un determinato luogo in un determinato momento, interessa VEDERLO, soprattutto in un’arte visiva come il fumetto.
L’altro difetto, sempre collegato ai disegni e purtroppo perennemente presente in Dragonero, è la poca rilevanza data ai momenti davvero importanti. Poche o mancanti, le tavole di una sola immagine per rafforzare l’impatto del momento. Poche immagini silenziose, poco tempo per sentire il vero e proprio pathos, ed è un peccato.

Se non fosse per questi pochi ma considerevoli difetti, Dragonero sarebbe stata una saga capace di rivaleggiare anche con Fables, purtroppo è da considerarsi “Tex Fantasy”, ma non per questo è brutto.
Non c’è altro da fare che attendere di vedere la conclusione di questa saga e dove ci porterà la missione di Ian.

 

Andrea De Venuto

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