Viviamo in un’epoca molto strana, un’epoca in cui si ricerca qualcosa che intrattenga piuttosto che qualcosa capace di stimolarne realmente l’immaginazione. Un’epoca in cui, ciò nonostante, si vuole anche che tale cosa risulti a prima vista complessa e articolata, così da risultare matura e più adatta ad ogni tipo di età. Perché siamo nel ventunesimo secolo, e si crede ancora che l’animazione sia un genere e non uno stile, e che sia per forza collegabile a intrattenimento infantile, e per questo valga la pena renderlo “realistico”.
Questa, signore e signori, è l’epoca dei remake in live action Disney, in questo particolare caso di Dumbo, film del 2019 diretto da Tim Burton, già alquanto famoso nel campo avendo diretto i due live action di Alice.
Scelta alquanto singolare da parte della compagnia di produzione più potente al mondo, dato che lo stile burtoniano si sarebbe più sposato con un remake di Taron e la Pentola Magica o simili, avendo il regista partecipato anche alla sua realizzazione, ma meglio non discutere con le decisioni della Disney.
E tuttavia ci si chiede: possibile che un regista un tempo simbolo stesso di personalità visionaria, di eccentricità artistica e di originalità registica possa dirigere un film così freddo? Un film contraddistinto solo dai continui tropi burtoniani? L’outsider che vuole far vedere le sue particolarità al mondo, problemi famigliari tra genitori e figli e quant’altro?
Tutti noi conosciamo il classico del 1941. Anche se non lo si è visto, non appena ne viene pronunciato il nome le due enormi orecchie da elefante balenano subito nella nostra mente, come semplice collegamento parola-immagine datoci dal continuo merchandising. Era una storia semplice, commovente, puerile e altamente godibile da chiunque, come del resto il 90% dei classici Disney.
Dunque perché complicarla ulteriormente? Perché la Disney sente il bisogno di rendere complesse delle storie belle proprio per la loro semplicità? In ogni remake creato devono per forza metterci dentro politica, guerra, conflitti sociali e quant’altro? Perché riciclare le scene migliori in situazioni che non creano pathos, solo per dare allo spettatore un senso di amara nostalgia? E addirittura perché metterci un villain? Non un antagonista, come vorrebbe ogni storia ben strutturata, ma un villain.
Un villain che non era presente nella versione originale e che qui viene invece ficcato a forza, in un film che pretende di essere più adulto.
La risposta risulta ovvia: soldi. Se si associa un nome ad una compagnia, di sicuro sarà sinonimo di qualità, vero?
Ci si dovrebbe chiedere se si faccia di più il tifo per un personaggio dal quale punto di vista vediamo la storia oppure del quale vediamo le imprese dettate dalle persone che girano attorno a lui.
Non lo salva neanche la “critica” a Walt Disney fatta da un personaggio che dovrebbe rappresentarlo. Perché che senso ha una critica verso una casa di produzione permessa dalla casa di produzione stessa? A far vedere che il regista scelto, contando che ha un nome assai noto, voglia spingerla a rimodellarsi? Più che altro che si voglia far credere al pubblico che si è disposti ad ascoltare le critiche, quando non è realmente così. Perché meglio prendere dal proprio passato, piuttosto che creare qualcosa di originale.
Le uniche cose che si salvano in questo film sono la regia (inutile criticare una regia anonima) e le interpretazioni dei personaggi. Danny DeVito e Michael Keaton sono di nuovo in coppia in un film di Burton dopo Batman Returns, e la loro chemistry è sempre piacevole da vedere. Colin Farrell non ha neanche bisogno di presentazioni, così come Eva Green. Peccato per la monoespressività e l’acidità scaturita dalla bambina, quasi insopportabile per tutta la durata del film.In sintesi, un film con poca anima e poca personalità. Un film povero e freddo esteriormente e interiormente, che punta più alla nostalgia che all’inventiva.
L’unica speranza che possiamo avere per ora è che, presto, la Disney si stanchi di fare “rimodernizzazioni” delle sue opere ormai immortali, dato che ormai si sa che presto verranno dimenticati, e che risorga dalle sue ceneri come fece al tempo del suo Rinascimento.
Andrea De Venuto
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