Ormai lo sapete, sono una divoratrice seriali di libri, leggo di notte, quando ho l’insonnia, leggo di giorno, fugacemente nelle piccole pause quotidiane tra famiglia, casa e scrittura. Insomma, quando posso, leggo.
Leggere mi fa stare bene, mi fa entrare in spazi angusti, oppure ampi, mi fa immaginare i personaggi, i luoghi e le voci a cui poi mi appassiono.
Per questo articolo di luglio vi vorrei parlare di E questo è niente di Michele Cecchini edito da Bollato Boringhieri.
Un romanzo che ho scoperto per caso, con una scrittura molto poetica e leggera, ma che parla di cose molto terrene.
Siamo in un paese in Toscana, il protagonista è Giulio, un ragazzo che ha una paralisi cerebrale infantile per una nascita precipitosa e con ventosa.
Fin qui nulla di strano, molti in Italia e nel mondo hanno una paralisi cerebrale infantile dalla nascita, solo che questo romanzo di una storia famigliare, è ambientato negli anni ‘60, dove ancora non esisteva l’idea di riabilitare le persone con disabilità, e se tali persone sopravvivevano alla nascita o alla malattia, allora venivano relegare in una stanza, chiuse dentro casa, imprigionate in corpi anarchici e nascoste agli sguardi esterni per evitare le “curiosità Morbose”.
Giulio viene definito il “coso”, l’“infelice”, lo “sgorbio”.
In realtà, seppur con i grandi limiti della disabilità motoria, Giulio vede, sente e vive tutto con molta intensità e voglia di esserci, purtroppo tutta la sua esistenza si basa sulle attenzioni che gli presta la sua famiglia.
Non è difficile per chi ha vissuto la disabilità motoria da sempre, immedesimarsi, ma è anche difficile leggere di certe situazioni e mentalità che Vigevano nel nostro paese anche solo 50 anni fa, e che in certi luoghi persistono ancora.
Nonostante certe difficoltà nel leggere alcuni passaggi, ho apprezzato molto lo stile di scrittura dell’autore e mi è piaciuta la dedica iniziale al padre.
“Questo libro è dedicato a mio padre Sergio. Allievo di Adriano Milani, nel 1966 aprì a Lucca, in piazza San Pierino, un Centro per bambini con paralisi cerebrale infantile.”
Questa breve dedica ci fa capire quanta strada si è fatta dall’intuizione di un grande medico e quanta ce ne sia ancora da fare per riabilitare le persone con paralisi cerebrale Infantile e per riuscire a considerarle nella loro interezza, e non solo in virtù di una diagnosi su carta.
Dal sito della casa editrice a proposito della trama del libro si legge: “È una strana forma di letargia quella che coglie all’improvviso gli abitanti di via Cadorna, dove i più anziani sprofondano a turno in un sonno che dura ventiquattrore e poi svanisce senza lasciare traccia.
Qui, in un piccolo borgo della campagna fiorentina alla metà degli anni Sessanta, vive Giulio, il nipote del dottore del paese. Giulio ha sedici anni e ne dimostra la metà. Non si muove e non parla. Si definisce «un coso che ha due braccia e due gambe, ma non funziona nulla». È tetraplegico.
Immobile nel suo lettino, Giulio osserva, rielabora gli scampoli di vita che gli capitano a tiro, intercetta parole e reinventa l’esistenza a modo suo.
Insieme alle ipotesi che via via si dipanano sui motivi della letargia, Giulio racconta di sé e della sua famiglia – il nonno autoritario, il padre indolente, la madre a caccia di sogni – da cui emerge un quadro strampalato dei normali, «gli esseri più misteriosi e più scontenti di tutti», messi straordinariamente a fuoco da chi normale non è, anzi si vede affibbiato l’epiteto di infelice.
Improvvisamente per Giulio si apriranno le porte di un mondo nuovo e inaspettato grazie a uno dei medici che giravano per i paesi alla ricerca dei piccoli pazienti invisibili: un dottore alla rovescia ispirato alla figura di Adriano Milani, fratello di don Lorenzo, che a lungo si batté perché la sanità restituisse a questi bambini dignità di persona.
La scrittura di Michele Cecchini, lieve e insieme cruda, invita a entrare con coraggio nei pensieri e nell’universo di chi non ha voce. Una fiaba senza fiabesco, dal tono mai patetico e a tratti scanzonato. L’esistenza raccontata da un bambino che non ha alcuna intenzione di rinunciare alla felicità e si lascia «amare dalla vita come viene viene».
Non è una lettura facile a livello emotivo, perché tocca molti nervi scoperti, rievoca molti ricordo spiacevoli in chi ha condiviso la stessa condizione di Giulio, bloccato in un letto e con la pietà e frustrazione dei parenti, ma lo consiglio perché comunque obbliga ad avere uno sguardo diverso sulle cose e sulle esperienze di vita. E grazie alla scrittura coinvolgente di Cecchini riusciamo a vedere quegli stessi frammenti che vede Giulio dal suo letto, come se fossero l’universo intero e non solo una crepa sul soffitto, o un albero fuori dalla finestra. Insomma tutto il romanzo è un inno verso l’importanza delle piccole cose, a discapito delle tanto decantante vite felici ed esperienze grandiose dei “normali”, in fondo arranchiamo un po’ tutti nella vita, chi più e chi meno, ciò che cambia e lo sguardo con cui osserviamo le cose e giudichiamo le nostre azioni.