A quarantacinque anni dalla sua morte il “re” fa ancora parlare di sé, ispirando anche la creatività di
determinati autori della settima arte vogliosi di narrare le sue gesta.
Di quale “re” stiamo parlando? Ma del re del rock, mister Elvis Presley, l’icona musicale che tutto il mondo conosce e ha bramato, lasciando che vendesse il più alto numero di dischi per un cantante solista.
Il regista che ora gli rende omaggio è il “musicale” Baz Luhrmann, autore australiano che molti conoscono per i fasti ottenuti con i suoi vari “film cantati”, quali sono titoli come Romeo + Giulietta, Moulin Rouge! e Il grande Gatsby; il suo occhio dedito alla coreografia narrativa si mette al servizio della storia di Presley, dedicandogli un’opera fiume, della durata di due ore e quaranta, sul suo rapporto con colui che ha sempre accompagnato il “re” verso il successo, ovvero l’ambiguo e misterioso colonnello Tom Parker.
Dalle parole di quest’ultimo personaggio, interpretato da un Tom Hanks ricoperto da strati di trucco, prende avvio il biopic Elvis, dove nei panni del noto cantautore troviamo il giovane Austin Butler, visto in C’era una volta…a Hollywood di Quentin Tarantino, cui spetta il duro compito di far rivivere sulla sua performance la magia della presenza scenica di Presley.
Dai primi anni della sua comparsa sui palchi d’America fino all’amore per la bella Priscilla (Olivia DeJonge), qua assistiamo ad una lunga cavalcata attraverso gli anni che hanno coronato il successo di questo profeta del rock’n’roll, il cui amore per la musica black e l’ammirazione per quel mondo lo hanno fatto divenire l’uomo che tutto il globo ha conosciuto.
Ma chi trama alle sue spalle è l’impresario colonnello Parker (Hanks), il quale utilizza il suo Presley per guadagnare quanti più soldi possibili, sfoggiando un’avidità senza eguali ma anche una malsana dipendenza da gioco d’azzardo.
Questo loro rapporto professionale si dimostrerà essere la base su cui si poggia l’intera carriera di Elvis, a costo di distruggere la vita personale di quest’ultimo, sempre più prigioniero del volere di Parker.
Artista musicale già trattato in svariate opere, soprattutto per la tv che gli ha dedicato, tra l’altro, prima un lungometraggio biopic del 1979 diretto da John Carpenter con Kurt Russell (Elvis,il re del rock) poi una miniserie del 2005 diretta da James Sadwith con Jonathan Rhys Meyers (Elvis – The early years), Presley è ora al centro dell’ispirazione di un regista come Luhrmann, il quale, per l’occasione, appoggiandosi al suo stile cadenzato e ritmato ci parla di quel lato oscuro della vita di questo cantante, trascinando lo spettatore in una lunghissima ballata, a volte portata anche all’eccesso, come se stesse cantando per fotogrammi ciò che sta narrando.
Appoggiandosi ad un montaggio cadenzato alla perfezione, a cura di Matt Redmond e Matt Villa, Elvis di Luhrmann è proprio quello che ci saremmo dovuti aspettare dal regista di Moulin Rouge!, un lungo arco narrativo che attraversa ogni momento simbolico del “re del rock”, dalla sua spiccata virilità scenica a colpi di “pelvis” fino all’amore per Priscilla e per la sua famiglia, composta da papà Vernon e mamma Galdys (interpretati rispettivamente da Richard Roxburgh e Helen Thomson), fino agli abusi di fine carriera e l’epilogo del suo rapporto con il colonnello Parker.
Ed è proprio su questo dualismo scenico che Elvis incentra la sua corposa trama, mettendo l’uno di fronte all’altro un Hanks mai così laido e mefistofelico, il quale gigioneggia degnamente per rendere giustizia al suo personaggio cosiddetto negativo, e un Butler perfetto nel ruolo del re Presley, la cui faccia pulita e tormentata riempie la scena, mentre la sua mimica rasenta la perfezione nelle performance musicali.
E’ il lato recitativo che rende questo Elvis qualcosa di più di quello che vale, anche perché la narrazione a lungo andare arranca e qualche minuto di troppo lo si avverte, ma come già accennato è vedere alla prova sia Butler che Hanks qua può renderci più che soddisfatti, rimanendo consapevoli di aver assistito ad un biography appagante e romanzato il giusto, spiegandoci alla perfezione il perché Presley sia divenuto il mito quale è, anche a più di quarant’anni dalla sua morte.
Anzi, oggi pure più di prima.
Mirko Lomuscio