La libertà di tentare

Quando ero piccola, la mia giornata finiva alle 21.30. Mio padre aveva stabilito che a quell’ora io e mia sorella dovessimo andare a letto.

Mi lavavo i denti e poco importava quanta voglia o meno avessi di farlo. Dovevo passare dal suo  controllo severo e se non vedeva il bianco splendente uscire dalla mia bocca, era capace di rimandarmi in bagno non so quante volte.

Un freddo bacio della buonanotte.

Per fortuna un’altra mano accoglieva la mia per accompagnarmi verso la cameretta.

Mamma.

Mi rimboccava le coperte, ma tante volte le scostavo nuovamente per farle un posticino accanto a me. Si chiacchierava, con il tono complice delle confidenze. Una culla per i sogni.

Fino a quando veniva richiamata all’ordine dalla sala di comando. La voce stizzita di mio padre non lasciava presagire nulla di buono.

Ma lei si alzava sorridente e mi augurava di dormire bene con un bacio che aveva il calore dell’amore sentito.

Chiudevo gli occhi con un lungo sospiro appagato. Fotografia del suo viso rassicurante.

Poi dalla cucina giungeva il borbottio che ben conoscevo. Spalancavo gli occhi e il mio cuore cominciava ad accelerare nel crescendo delle loro voci.

Litigavano.

Argomenti che si muovevano in lungo e in largo nello spazio e nel tempo.

La miccia che scatenava quel fuoco, poteva essere un qualunque pretesto.

“Oggi ti sei messa troppo rossetto”.

“Butta quella maglietta, perché è trasparente”.

“Non hai ancora lavato i piatti” (e lui seduto a tavola a bere vino e fumare).

“Tua madre e le tue sorelle non ti vogliono bene”.

Qualche volta si lamentava delle troppe attenzioni che rivolgeva a noi. Le diceva: “Non le sai educare, le stai rovinando”.

Ringrazio il cielo e mia madre ogni giorno, per quelle attenzioni. Sono state l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per attraversare le furibonde tempeste. La luce che mi ha indicato la direzione da prendere per diventare la donna che sono ora. Il bene.

Mi rendo conto, anche se già allora lo intuivo, che tutto ruotava intorno al suo egoismo e alla sua gelosia. Accecante e ignorante. Morbosa e malata.

Lei cercava di ribattere, di farlo ragionare su un piano di intelligenza e lucidità di cui lui probabilmente non aveva la minima conoscenza. Non riusciva in questo.

Lui urlava, il suono della sua voce a riempirgli le orecchie rimbombando nella sua testa vuota.

Immaginavo mia madre cercare di proteggersi dietro uno scudo che si incrinava a ogni insulto.

Io piangevo. Rimanevo incredula e impotente. Nel mio piccolo mondo avevo già chiara l’idea che ci fosse qualcosa di sbagliato, stonato.

Una lacrima per ogni sua parola ingiusta e cattiva. Solchi sulle guance, lame nel cuore. Fendevano l’aria facendo più rumore di uno schiaffo. Ferite sedimentate.

Mi giravo a guardare mia sorella, il petto mosso dal respiro regolare del sonno. Provavo sentimenti contrastanti. Ero sollevata che dormisse, ma avrei voluto si svegliasse per dividere con lei un po’ di quel dolore.

A un certo punto arrivava il tanto agognato silenzio. Ma era il momento che faceva più chiasso. Mi sarei voluta alzare, abbracciare mia madre e consolare il suo pianto nascosto, ma la pesantezza dei pensieri e la paura di scatenare un nuovo litigio mi tenevano incollata al letto.

Mille domande si impossessavano della mia piccola mente, tormentandola. Mi chiedevo cosa sarebbe successo adesso. Se fosse colpa nostra. Dove avevamo sbagliato e perchè. Se mio padre si sarebbe calmato, tornando a sorriderci qualche volta o se tutto sarebbe irreparabilmente cambiato.

Alla fine la stanchezza mi concedeva tregua. Tutti i pensieri si confondevano in una nebbia sfuocata fino a perdersi completamente nel buio.

La mattina, il sole sorgeva portando nuova luce. E mia madre, quella luce, la faceva entrare tutta. Spalancava le finestre così che ogni mobile e ogni angolo dentro casa rinvenisse e risplendesse. Veniva a svegliarci con voce ferma e dolce, lasciandoci cinque minuti ancora per toglierci di dosso il torpore della notte appena trascorsa.

La tavola in cucina era apparecchiata per la colazione, la televisione sintonizzata sui cartoni animati e lei… lei sorrideva.

Come se niente fosse.

Era spiazzante. Avrei voluto chiederle tante cose. Tutte quelle domande racchiuse nel mio sguardo.

Ma lei… sorrideva.

“Sono cose che capitano. Andrà tutto bene.”

Ed era facile crederle.

Oggi, quando ripenso a quei momenti, so che non devo vederci debolezza o vigliaccheria.

È vero, per tanti anni le è mancato il coraggio di tagliare il filo che la teneva legata a quella relazione malata, ingarbugliata in parole taglienti che hanno plasmato la sua personalità. Sminuita dentro un circolo vizioso nel cui fondo giaceva l’autostima.

Però io vedo una donna che con tutta l’essenza, quella profonda, si è data con totale dedizione al suo essere mamma. È stato il suo rifugio. E non è una cosa scontata.

L’ho vista tessere ali di pazienza, amore e forza che ci hanno protette. Hanno attutito i colpi, smorzato le ferite.

Poi è arrivato il momento di renderle tutto questo bene. È come se ci fossimo sempre tenute per mano, noi tre. Solo che a un certo punto, con una sola occhiata, io e mia sorella, cresciute, abbiamo capito che spettava a noi scavare dentro quel muro di difese, paure e rassegnazione. Arrivare a lei, alla sua vera persona. E tirarla fuori.

Così è stato.

Sei anni fa, mia mamma ha compiuto 50 anni. Per la sua festa di compleanno siamo andate tutte insieme a ballare in discoteca. Una notte fantastica.

In questi anni ha vissuto più vite di quante ne credeva possibili. Ha ripreso tra le mani tutto ciò che prima si lasciava scioccamente sfuggire. Ogni piccola soddisfazione è stata una conquista densa di significato.

Si è rimessa completamente in gioco. Ha una qualifica che ha ottenuto studiando sodo, è entrata nel mondo del lavoro con le sue doti e capacità. Ha amici e amiche. Esce, si veste come vuole, si trucca come vuole, con la signorilità, l’eleganza e la dignità, compagne di viaggio.

Si è innamorata.

Non è stato tutto facile come schioccare le dita. Abbiamo avuto accanto le altre donne della nostra famiglia, ma abbiamo attraversato tortuosi percorsi, strade impervie rallentate da giudizi e critiche.

È stato autentico, però. E libero.

La libertà di tentare, lanciarsi incontro alla vita, senza l’angoscia che uno sbaglio potesse significare cattiverie urlate contro.

Mio padre, che prima sovrastava e sormontava le nostre esistenze, gettandole nell’ombra, ora è un punto talmente lontano, da non avere più importanza. Certo, è radicato in ognuna di noi, purtroppo, ma l’anello di forza che abbiamo creato è saldo abbastanza da tenerlo ai margini. Non ha più alcuna influenza. Questo è quanto di meglio possiamo fare.

E se dovessero chiedermi a quale grande donna vorrei somigliare, beh… la risposta è chiara e limpida come l’inchiostro nero su questi fogli bianchi.

 

Erika Carta

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