La mia vita da zucchina: recensione

La mia vita da Zucchina è un film animato uscito nel 2016 e  realizzato interamente in stop motion e racconta una storia molto particolare e delicata, affrontando anche molti tabù e tematiche per nulla scontate, ma rarissime da trovare in certi film d’animazione.

Zucchina non è un ortaggio, ma un bambino (il cui vero nome è Icaro), che si fa chiamare così, perché è proprio così lo soprannominava la mamma alcolizzata.

Zucchina ha 9 anni, pensa di essersi ritrovato solo al mondo quando muore sua madre per un incidente, mentre suo padre è scappato da tempo, abbandonando la famiglia per un’altra donna. Il bambino rimasto solo al mondo verrà affidato a una casa famiglia, dopo il colloquio con un poliziotto che si mostra molto dolce e comprensivo, per nulla sbrigativo o freddo.

Icaro si sente solo, gli manca la mamma, si percepisce esattamente dalle emozioni e dai tratti in stop motion, che il ragazzo non sa cosa ne sarà di lui, si sente perso. Non sa che incontrerà dei nuovi amici nell’istituto per bambini abbandonati.

Zucchina viene così accolto da altri ragazzi che sono nell’istituto perché non hanno più una famiglia e le situazioni dalle quali provengono non vengono risparmiate allo spettatore. C’è chi ha avuto genitori che si drogavano, chi genitori abusanti, chi invece ha visto morire la mamma e il papà. Tutti questi bimbi smarriti hanno un nome e un’identità ben precisa: Simon, Ahmed, Jujube, Alice e Béatrice.

Hanno tutti delle storie di sofferenza alle spalle e possono essere sia scostanti, che teneri. Tutto ciò però è visto con gli occhi dei bambini, con una profonda umanità e verità che non edulcora nulla, ma che nello stesso tempo fa empatizzare con ognuno di questi cuccioli d’uomo, senza per forza cadere nel pietismo o nella disperazione.

Zucchina all’inizio litiga con Simon, il più grande, il capo, il bulletto, quello che sembra il più forte, ma che in realtà nasconde tanta fragilità e bisogno di affetto, il bisogno che abbiamo tutti di sentirci importanti per qualcuno.

C’è poi Camille, una bambina nuova che dal momento in cui arriva all’istituto altera gli equilibri e suscita in Icaro un’attenzione diversa. Se si hanno dieci anni, degli amici e si scopre l’amore, forse la vita può presentarsi in modo diverso rispetto alle attese. Può essere non così senza speranza come sembrava all’inizio.

Claude Barras, il regista, traendo ispirazione anche dal romanzo Autobiografia di una zucchina di Gilles Paris, ha saputo mettersi ad altezza di bambino deprivato senza mai farsi tentare da uno sguardo dall’alto in basso. Lo ha fatto consegnando ad ognuno dei protagonisti (pupazzi animati in stop motion) dei grandi occhi capaci di attrarre qualsiasi spettatore (bambino o adulto che sia) che non sia privo di sensibilità, il finale poi, lascia quel senso di agrodolce, perché non è solo felice e non è solo triste, c’è chi se ne va dalla casa famiglia e chi resta, ma su tutto l’importante è l’affetto e l’amicizia e il tenersi nel cuore anche le piccole cose che ci fanno andare avanti.

Emozionante e perfetta la chiusa che accompagna i titoli di coda, e le lacrime, con la cover dei Noir Desire, Le vent nous portera.

 

Samanta Crespi
 
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