L’orto americano: recensione

Con una periodicità che puntualmente lo porta in sala sin dalla fine degli anni ’60, l’appuntamento con il cinema di Pupi Avati si arricchisce quest’anno con l’arrivo di un nuovo thriller firmato dal noto regista emiliano, presentato nel 2024 al Festival del Cinema di Venezia.


Intitolato L’orto americano, il film in questione è una storia che si ambienta tra gli Stati Uniti e l’Emilia Romagna subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, epoca in cui prendono inizio le travolgenti vicissitudini di un giovane scrittore dal passato tumultuoso, avendo avuto anni addietro problemi di instabilità psicologica.

Trasferitosi nell’Iowa, il nostro protagonista (interpretato da Filippo Scotti) va a vivere in un tranquillo quartiere di periferia per trovare la giusta ispirazione per il nuovo libro; confinante con la casa di un’anziana signora (Rita Tushingham), il ragazzo farà la conoscenza di quest’ultima e della sua ossessione per la figlia morta Barbara, scomparsa in Italia mentre svolgeva il ruolo di ausiliaria per l’esercito americano.

Dalle foto in possesso dell’anziana, il giovane riconoscerà Barbara stessa, avendola incontrata anni prima nella bottega di un barbiere vicino a Ferrara e essendosene innamorato nel momento in cui l’ha vista.

Deciso a voler scoprire cosa è successo veramente, lo scrittore svolgerà un’indagine che lo riporterà direttamente in Italia, nelle terre emiliane in cui vive, svelando determinate realtà di cui non era a conoscenza e che approfondirà pienamente sulla propria pelle.

Grazie ad uno sguardo sempre lucido sul suo modo di voler affrontare il genere in sé, Avati si è sempre confermato da decenni un autore capace di sperimentare e trovare idee per le sue innumerevoli storie, soprattutto quando si tratta di guardare ad un prodotto che vive di tensione e atmosfere degne di nota; con L’orto americano questo effetto non si sortisce granché, dato il prodotto complessivo che alla fine sembra risultare come un qualcosa poco al di sopra di una fiction.

Non che tutto sia da evitare, anzi, grazie a quella fotografia in bianco e nero (a cura di Cesare Bastelli) e a quella sua solita voglia di saper delineare la provincia italiana, come anche quella di una certa periferia americana, Avati riesce pur sempre a portare anche questa volta una visione che presenta determinati dettagli interessanti e punti di vista all’altezza della situazione.

Il problema è quando si tratta di tirare le somme con la trama in sé, dove non sembra proprio presentare alcuno sforzo quando si tratta di fare a meno di colpi di scena evitabili come pure di momenti un po’ fini a se stessi, anzi L’orto americano non è da ritenersi tra le opere pienamente riuscite del regista de L’arcano incantatore, ma di quelle che stanno nel mezzo, cioè non belle e non brutte, ma che presentano sempre dei suoi marchi di fabbrica in modo egregio mai andando al di sopra della media.

E non basta cospargere il film con le presenze guest di attori come la Tushingham più Roberto De Francesco, Andrea Roncato, Nicola Nocella, Massimo Bonetti, Claudio Botosso, Cesare Cremonini e Chiara Caselli per elevare la visione de L’orto americano, quest’ultimo lungometraggio firmato Avati risente un po’ di quell’approccio da fiction che non porta nulla di che, senza guizzi da opera cinematografica e neanche quei ritmi degni del creatore di Zeder e La casa dalle finestre che ridono.

Mirko Lomuscio

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