Mirai: recensione

Hosoda Mamoru: un nome, una garanzia.

È un regista sul podio dell’animazione giapponese insieme a Miyazaki Hayao e Shinkai Makoto. Prima di fondare il suo studio di animazione (lo Studio Chizu), Hosoda ha lavorato a Digimon: il film del 2000 e a One Piece: L’isola segreta del barone Omatsuri del 2005. Per dire solo alcuni dei suoi lavori più famosi.

Nel 2006 è uscito La ragazza che saltava nel tempo, seguito da Summer Wars nel 2009 e da Wolf Children – Ame e Yuki i bambini lupo nel 2012.

E quest’anno, il 20 luglio, è uscito Mirai (il cui titolo originale è Mirai no Mirai, ovvero Mirai del futuro) in Giappone. Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2018 e distribuito nei cinema italiani dal 15 ottobre 2018 da Nexo Digital.

La trama è tanto semplice quanto piena di spunti: Kun è un bambino di quattro anni, coccolato e viziato da tutti i membri della sua famiglia, finché, un giorno, mamma e papà rientrano con la sua sorellina minore, Mirai, tra le braccia. Verso la piccola, Kun prova sentimenti contrastanti che vanno dalla curiosità alla gelosia. È proprio durante uno dei suoi scatti di gelosia che, correndo in giardino, dopo essere stato sgridato dalla mamma, sembra ritrovarsi in un altro mondo e viene costretto dalle circostanze a confrontarsi con una Mirai già adolescente, con la madre bambina e con il bisnonno dai quali imparerà ad accettare il suo nuovo ruolo nella famiglia e ad impegnarsi per raggiungere i propri obiettivi.

Il tempo in cui la storia si svolge è circa il primo anno di vita di Mirai e la quasi totalità delle azioni si svolgono in casa.

I disegni hanno tratti dolci e puliti che accentuano i tratti infantili sia di Kun che di Mirai così come le loro espressioni facciali.

Il doppiaggio italiano, curato da Dynit, è davvero ottimo e i due brani cantati da Tatsuro Yamashita (l’opening Mirai no theme e la ending Uta no Kisha) sono perfetti per l’atmosfera intimista del film.

Non mancano piccoli riferimenti alla cultura giapponese: il giardino, in cui si svolgono le esperienze oniriche del bambino, che è un riferimento allo shintoismo, e l’Hinamatsuri (festa delle bambole o festa delle bambine), che si svolge ogni 3 marzo, in cui si espongono le bambole della famiglia imperiale e durante la quale si prega per la salute e bellezza delle proprie figlie.

Mirai è un film dal tema semplice e forse anche un po’ banale, ma che sa emozionare. Non sapremo mai se Kun incontra davvero i membri della sua famiglia provenienti da epoche diverse o è solo frutto della sua immaginazione, ma vedremo tutto con gli occhi innocenti e meravigliati di un bambino che sta imparando cosa significa essere un fratello maggiore. Lo scambio di dialoghi tra i personaggi a tratti sembra troppo semplicistico ma l’effetto è molto naturale. Ci sono, poi, alcune scene che sembrano avere l’unico obiettivo di strappare un sorriso allo spettatore ma nel complesso rendono il film molto leggero.

È sul finale scopriamo la morale del film: per capire il presente bisogna imparare dal passato dei membri della propria famiglia che hanno già sperimentato tutte le esperienze dei giovani. Anche in Mirai, Hosoda mette al centro dell’attenzione la famiglia, arrivando a toccare il cuore degli spettatori, nel momento in cui Kun si rende conto di essere il frutto delle scelte che i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi bisnonni hanno compiuto prima che lui nascesse, e che anche il bambino farà, nel corso della sua vita, delle scelte che avranno delle conseguenze su lui, prima di tutto, e sugli altri membri della sua famiglia.

È un film che va sicuramente guardato se avete apprezzato anche i precedenti film di Hosoda. Mirai è carico di tenerezza e di malinconia, che nel finale, in cui Kun accetta la piccola Mirai e finalmente capisce come poter giocare con lei, sa anche strappare una lacrima, mentre si viene cullati dalla bellissima ending Uta no Kisha.

 

Michela Russo

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