Mi sono chiesta spesso come sarebbe stato il passaggio ad un’altra vita.
Se fosse una galleria, come quella in autostrada quando si viene da Milano, che prima c’è il Turchino ed è sempre nuvoloso e poi esci e vieni accecato.
Dalla luce che riflette il mare.
Dal sole che in città non ricordavi nemmeno più come fosse.
Mi domandavo se somigliasse ad una di quelle file al bagno delle donne che ci sono ai concerti.
Che tutte hanno bevuto almeno una media e sono lì avvolte dai loro pensieri.
E se le guardi in faccia ti sembra di leggere:
“Mi bacerà stasera?”
“Non voglio fare le cinque, se no domani sarò una merda”
“Ho mangiato troppo, ora provo a vomitare”
E ti metti il rossetto, ti guardi intorno, ma più aspetti e più ti scappa.
L’immaginavo una di quelle notti in cui non riesci proprio ad entrare nel sonno.
E ti giri, ti rigiri, fai pensieri assurdi.
Poi il tempo passa e sale l’ansia di una notte insonne.
A quel punto ti aggrappi ad un bel ricordo.
Che ti porta con sé come un abbraccio stretto verso il sonno.
Verso un posto dove tutto va come dovrebbe andare.
Fisicamente succede questo.
Nella stanza di ospedale arrivano due inservienti e la prima cosa che ti dicono è che si occuperanno solo di trasportare il defunto.
Lo mettono nella scatola di latta che si portano da chissà dove.
E poi si va.
Dentro a viscere grandi come una città.
Si prendono ascensori, si passano corridoi, zone con l’aria condizionata, altre caldissime, magazzini di strumenti medici dismessi.
Una vera e propria discesa verso l’inferno.
Quello che cambia da una stanza all’altra però, quello che mi è rimasto impresso, è il colore delle pareti.
Prima verdi, poi azzurre, poi tortora.
Capisci che sei arrivato alla fine quando si fanno violette.
Ma dentro alla scatola di latta o ovunque tu sia sono certa che quell’abbraccio ti accompagni nel sonno.
Così forte e stretto da farti finalmente dormire serena.
Testo Francesca Lorusso