Indossavo ancora i calzettoni bianchi ricamati con i mocassini marroni e la gonna scozzese quando mi ritrovai a vedere l’opera lirica seduta accanto a un ragazzino, che doveva ancora sbocciare, con occhi leopardati e frangetta spettinata. L’insegnante di pianoforte aveva invitato me e altri suoi allievi a fare l’abbonamento per cinque domeniche una volta al mese al Teatro Margherita di Genova.
Lo guardavo nel buio della sala quando le luci erano puntate sul palcoscenico e quando tornavano sul pubblico abbassavo il viso, con il cuore che scoppiava dentro a un golf di lana grossa, fatto a mano da mia mamma.
Dopo gli applausi e la chiusura del sipario della penultima opera, lui mi porse la sua mano sudata di coraggio e disse “Mi chiamo Marco Feller”. Ricordo l’incendio sulle guance e la mia bocca serrata incapace di dire il mio nome.
Infilai in borsa un paio di collant color carne rubate dal cassetto di mia mamma per andare l’ultima volta all’opera. Le indossai nel bagno del teatro prima di sedermi.
Quel giorno lui non venne. Cercai il suo nome sull’elenco telefonico per anni senza mai trovarlo e lo cerco ancora sui social senza mai trovarlo.
Roberta La Placa