Claudia Mantellassi, giornalista e comunicatrice, è nata a Livorno e vive sulle vicine colline di Nugola.
Ha lavorato in emittenti televisive locali, redazioni e uffici stampa, svolgendo attività di ghostwriter per personaggi pubblici e politici.
È autrice di numerosi articoli, video interviste e testi sulla comunicazione. Alcuni dei suoi racconti compaiono in antologie e sono stati premiati in vari concorsi.
Vuoti a perdere è la sua prima raccolta monografica.
Hai carta bianca e tre aggettivi per descriverti…
C’è il rischio altissimo che resti bianca, non mi piacciono le etichette né gli elenchi. E sì, sono consapevole di autoinfliggermi così il più temibile degli aggettivi: antipatica.
Mai senza…?
Foglio e penna. Un’idea, uno schizzo, il titolo di una canzone, una parola, uno scarabocchio, un ritratto, una frase d’amore, una parolaccia. Non ti chiedono il permesso quando arrivano, conviene farsi trovare pronti.
Cosa ti piace leggere?
Un po’ di tutto, mi reputo un’assaggiatrice seriale. Accade lo stesso per cinema e musica (a parte quando vado in fissa per un autore e allora mi sparo due o tre libri di seguito dello stesso, oppure guardo tutti film con quell’attore o di quel tal regista). Ultime cose lette, nell’ordine, Steinbeck, Kundera, Di Pietrantonio. Ammetto che il lockdown abbia giovato sensibilmente ai miei abituali ritmi di lettura.
Se dovessi esprimere tre desideri?
Sapere dove finiscono quelli che non ci sono più, mi basterebbe sapere che stanno bene. Schiacciare il rewind su qualche faccenda della vita passata e, naturalmente, poter rispondere “lo scrittore” gonfia di orgoglio a quanti domandano che lavoro faccia (specie poi se è la seconda volta dopo il loro “no, ma intendevo il lavoro vero”).
La tua vita in un tweet?
Io non ce l’ho neppure twitter e a stento resisto ancora su Fb. Non ce la faccio ad affidare la mia vita a uno slogan. Non voglio limiti e confini, sono un cane randagio (con una grande gioia di vivere) … ma forse già questo assomiglia a un maledetto tweet.
Parlaci del tuo libro. A chi lo consiglieresti e perché?
A chi ha perso la voglia di leggere, prima di tutto, perché la brevità e la ricchezza insita nei racconti possono fare in modo che gli ritorni.
A chi vorrebbe iniziare a leggere ma non si decide di farlo, perché una raccolta di racconti non pretende devozione assoluta ma sa adattarsi al tuo tempo, e la lettura di una short storie occupa giusto quello di un viaggio in tram o di una sala di attesa del dentista.
A chi ha appena terminato la lettura di un bel romanzo e fatica a prenderne un altro in mano, o a chi, al contrario, è capitato tra le mani un brutto libro e preso dalla delusione preferisce prendersi una pausa. Praticamente a tutti!
Come sono nati i personaggi?
Semplicemente guardandomi intorno che è la cosa che mi piace fare di più. Da bambina mi capitava di guardare la gente in autobus o nella sala d’attesa del dottore, e immaginare le loro vite, giocavo a inventarmi storie. In fondo sono rimasta quella bambina (è a lei che dedico la raccolta, non a caso, “alla bambina che sono stata”).
Le ambientazioni scelte provengono dal reale o sono anche una proiezione dell’anima?
I miei personaggi sono persone comuni, dunque anche le ambientazioni che fanno da quinta alle loro storie appartengono alla quotidianità. Disegno bozzetti della società che ci circonda con ironia e leggerezza, pur trattando grandi temi come la solitudine, il precariato, la vecchiaia.
Alcuni di questi racconti si svolgono a Livorno, che è la città in cui sono cresciuta e che amo. A suo modo è anch’essa un “vuoto a perdere”: una città, cioè, che non si dà mai la possibilità di essere qualcosa di più rispetto a quello che appare, ancorata a dei vuoti – stereotipi, luoghi, avvenimenti anche del passato recente – che la tengono come ferma al palo.
Come puoi riassumere ai potenziali lettori il tuo libro? Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?
La raccolta rappresenta una galleria di “storie a perdere”. Storie cioè che, proprio come i vuoti che non vengono restituiti, rimangono a occupare spazi interiori creando dei cortocircuiti. Perché se “rendere” i vuoti, cioè i non detti, le manie, le preoccupazioni e le nostalgie che affiggono le esistenze dei personaggi – così simili alle nostre – equivale in qualche modo a liberarsene, tenerli dentro porta inevitabilmente a limitare le possibilità di manovra, compromettere libertà e guastare vite, come accade ai protagonisti dei racconti.
Liberiamoci dei vuoti e vivremo meglio.
Sei già al lavoro su un nuovo manoscritto?
Diciamo che c’è un progetto al quale avevo iniziato a lavorare in concomitanza a questa raccolta. Mi piacerebbe chiuderlo prima di pensare a cose nuove che, voglio augurarmi, arriveranno.
Silvia Casini
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